Tra ignoranza e oscurantismo, ecco tutto ciò che non vi viene detto.
Molte delle informazioni che ci vengono date e soprattutto molte delle leggi e norme che vengono emanate dagli organi predisposti (nazionali, europei e enti sovranazionali) in materia di automotive sono avvolte da un profondo velo di ignoranza e incompetenza dei legislatori.
Intanto due parole su cosa si intende per “automotive”. Il significato rimanda alla produzione e alla commercializzazione di automobili, con una specifica rilevanza per l’aspetto tecnologico delle nuove vetture e della loro vendita.
Bollo e superbollo, tra follie italiane e ecologismo europeo
Iniziamo allora un viaggio alla ricerca delle verità nascoste partendo proprio dall’interessante articolo pubblicato recentemente su questa testata in merito al bollo auto. Ebbene, è curioso sapere che l’Italia è l’unico Paese della UE che fa ancora pagare il bollo come una mera tassa di possesso. Infatti se in Italia il suo calcolo avviene in base alla potenza (kw/cv) del veicolo a prescindere dal suo effettivo utilizzo, in Europa il sistema è ben diverso, in quanto tutto è commisurato alla distanza effettivamente percorsa durante l’anno. La differenza dei due approcci è abissale: se il bollo europeo mira a risolvere – quantomeno in parte – la lotta all’inquinamento di cui si fa portavoce la stessa UE, in Italia permane il falso mito dei politici (e dell’opinione pubblica) che ha nell’equazione “macchina potente = proprietario ricco” il suo perno. Difatti molti possibili acquirenti e appassionati di auto usate (e dunque a prezzi accessibili ai più) sono costretti a veder sfumato il loro sogno al solo pensiero di dover pagare annualmente cifre a tre zeri (somme che probabilmente avrebbero preferito destinare alla manutenzione dell’ipotetico veicolo, generando dunque indotto all’economia). A tre zeri sì, poichè in Italia esiste anche il superbollo (introdotto nel 2011 dal governo Berlusconi e inasprito dal governo Monti nel 2012) per le auto con una potenza superiore a 185 kw. Per intenderci la stragrande maggioranza delle sportive. Si pensi all’impedimento e al rallentamento che produce questa tassa sul settore automobilistico e in generale sull’economia italiana. Tassa che stona poi con le misure europee green. Ciò che i politici dovrebbero capire è che una Maserati che esce dal garage una volta al mese consuma decisamente meno di una qualsiasi utilitaria usata ogni giorno. Ma forse qualche passo lo si sta compiendo: in Senato si vocifera riguardo l’abolizione del superbollo a partire dal 2019 e l’UE ha stabilto che a partire dal 2026 in tutti i suoi Paesi dovrà vigere il bollo unico europeo sulla base della percorrenza. L’automobilista può finalmente tirare un sospiro di sollievo? Assolutamente no.Questo è solo un esempio di un sistema di falsità e incongruenze che ha nel dieselgate la punta dell’iceberg.
2015 anno zero. Il dieselgate: certezze, miti e falsità
18 settembre 2015: l’EPA (United States Environmental Protection Agency, ente federale statunitense per la protezione ambientale) mette sotto accusa la Volkswagen per aver installato un software in grado di alterare le misurazioni delle emissioni di NOx (l’insieme degli ossidi di azoto, che, combinati con alcuni idrocarburi, diventano tra i maggiori responsabili dell’inquinamento atmosferico) durante i test condotti per l’omologazione stradale dei veicoli diesel. Quattro giorni dopo arriva il mea culpa da parte dei vertici della casa tedesca: il software illegale sarebbe stato installato su ben 11 milioni di veicoli in tutto il mondo. Da qui prende piede il più recente e grande scandalo dell’industria automobilistica mondiale che nel giro di tre anni porterà a cambiare radicalmente – in meglio o in peggio – il mondo dell’automotive: come in un film, nel giro di pochi mesi, si assiste a repentini cambiamenti di posizione tra i vertici della casa che porteranno da un lato alle dimissioni dell’allora CEO Martin Winterkorn, dall’altro al ridimensionamento della più importante casa tedesca, oltre che primo produttore mondiale. La casa abbandonerà il pretenzioso e antonomastico motto Das Auto (l’automobile, con tanto di articolo determinativo), acconsentirà al pagamento di un risarcimento di oltre 15 mld di dollari e alcuni vertici aziendali negli USA saranno arrestati con l’accusa di truffa. Inoltre il nuovo CEO (Amministratore Delegato) Matthias Müller affermerà di non voler più perseguire una lotta per il primo posto nelle vendite globali, al fine di dare maggiore attenzione al rispetto della clientela.
Tuttavia questo sarebbe stato solo l’inizio: in poco tempo la stragrande maggioranza delle case di tutto il mondo sarebbero risultate coinvolte, chi più chi meno, nel nuovo scandalo: in primis Audi (di proprietà Volkswagen), Mercedes-Daimler, BMW e soprattutto FCA (già Gruppo Fiat) e Renault-Nissan. L’opinione pubblica ne resterà però scarsamente informata: il demone da combattere rimarrà rappresentato unicamente dai motori diesel Volkswagen. La prima fase dello scandalo terminava così, anche se già si iniziava a respirare tra le istituzioni una certa insofferenza per il motore a gasolio.
Das Kartell. Lo smascheramento di un cartello
Il 22 luglio 2017 la rivista tedesca Der Spiegel pubblica un’inchiesta riguardante l’esistenza di un cartello (accordo vietato in molti Paesi tra un gruppo d’imprese dello stesso ramo di produzione in cui ci si accorda sospendendo la libera concorrenza per trarre vantaggi comuni), tra le principali case automobilistiche tedesche. Da vent’anni le case si sarebbero accordate in riunioni segrete sui più svariati aspetti, a partire dalla scelta dei fornitori di componenti sino a misure ben più importanti quali quelle in materia di inquinamento. In un incontro segreto indetto da Audi per fronteggiare il problema del riscaldamento globale e le future normative in materia di emissioni (che si prospettavano sempre più strette), si giungeva ad un tacito accordo, essendo necessarie misure troppo costose per modificare i motori in una condizione di concorrenza: si sarebbe utilizzato, ai fini di ridurre l’inquinamento dell’aria causato dai perossidi di azoto prodotti dal motore diesel, un miscuglio di urea (denominato AdBlue) in grado di limitarne la produzione. Tuttavia, il serbatoio dell’AdBlue (una soluzione ancora utilizzata ed efficiente e non dunque “una truffa in tutto e per tutto”) sarebbe stato ridotto per non ingombrare troppo e gravare sulla capacità del serbatoio di carburante, risparmiando oltre 80€ a veicolo: il cartello decise perciò di non superare gli 8 litri di serbatoio, quantità del tutto insufficiente per fare i 16.000 km dichiarati a basse emissioni: ne sarebbero serviti in media 19 litri. Ma in ogni caso non ci sarebbero stati pericoli per l’incolumità delle aziende. La campagna del “clean diesel” che veniva così portata avanti pareva dunque il simbolo del successo dell’auto tedesca. Sui modelli diesel delle case campeggiavano orgogliose sigle come BlueTec, BlueMotion e simili. Tuttavia con l’arrivo delle nuove normative europee Euro 6 (2015) per le emissioni dei veicoli, le case dovettero ricorrere a sistemi illegali: ora infatti si sarebbero riscontrate emissioni superiori di decine di volte alla soglia imposta. Per non ingrandire i serbatoi di AdBlue si fece ricorso a software in grado di “truccare le emissioni” in fase di test condotti dagli organismi predisposti. Poi lo scandalo. Il dieselgate altro non è, dunque, che una manovra attuata – a ragione – dal governo statunitense contro il cartello tedesco. L’unica evidenza di questo cartello era rappresentata dalle emissioni del diesel: l’accusa al diesel non è dunque un’accusa di sostanza contro il motore in sé, quanto piuttosto un pretesto per un’accusa politica (con un substrato economico). Non dimentichiamo infatti che le industrie automobilistiche americane navigano infatti in una crisi profonda: dalla crisi del 2008 le Big Three americane (General Motors, Chrysler – comprata dalla FIAT prima del fallimento – e Ford) faticano ancora a riprendersi, succubi di politiche americane promotrici di un eccessivo liberismo che ha portato all’affermazione di case europee e sta portando all’ascesa di nuove case cinesi. Perciò il governo americano ha dovuto trovare un modo per tutelare le proprie industrie. Poi, in ogni caso, nella trappola sono cadute tutte le altre case del mondo (anch’esse coinvolte in altri accordi), alle quali però non è stato dato troppo peso: il nemico era costituito dalle case tedesche. E il nemico è stato annichilito. Ora le industrie tedesche hanno ripreso la giusta via, abbandonando la strada del cartello.
Da cartello a fenomeno politico: il diesel nuovo demone della vita del cittadino
Alla luce di tutto ciò, emerge chiaramente che il diesel in sé non possiede aspetti che lo possano rendere più inquinante rispetto ai motori a benzina. Si è già parlato dell’AdBlue, tecnologia che, se usata correttamente, funziona. Usando anche altri filtri, catalizzatori e nuove tecnologie poi, nel corso di due anni, le case hanno riportato (stavolta dati alla mano) le emissioni del diesel al di sotto di quelle dei motori a benzina. Oggi un veicolo a gasolio produce tra i 40-60 mg/km di NOx (con minimi record di 13): il regolamento vigente prescrive di non superare i 168 mg/km (abbondantemente superati prima del dieselgate). Mantenendo tutte le altre caratteristiche già note che rendevano il diesel più green del benzina (in primis i consumi e le decisamente inferiori emissioni di CO2). L’ultimo scoglio per l’affermazione della superiorità ecologica del diesel è stato perciò superato. Merito delle nuove norme di svolgimento dei test introdotti dal severo regolamento Wltp (Worldwide Harmonized Light Vehicles Test Procedure) e di nuove norme antinquinamento (spesso anche caotiche) che hanno avuto come ultima espressione concreta la severa normativa Euro 6-d. Norme che sono costate molti sforzi e risorse per tutte le case automobilistiche, ma che alla fine hanno portato a ottimi traguardi permettendo alle stesse case ree di aver imbrogliato i clienti di rimettersi in carreggiata. Perciò oggi il diesel è a tutti gli effetti un motore più pulito. Verrebbe da chiedersi allora, dove sta il problema nel diesel? Considerando quanto detto, si presupporrebbe la fine del motore a benzina, ma così non è. Soprattutto per ignoranza e cocciutaggine dei governanti. Contestualmente al lavoro di affinamento delle tecnologie e di sforzi delle case, gli organi politici e le istituzioni hanno avviato un’inutile quanto insensata campagna di boicottaggio e attacco al motore diesel. Inutile in quanto danneggia le economie dei singoli Stati, dove il diesel rappresenta ancora oltre la metà della produzione e delle vendite, insensata per i motivi di cui sopra. L’accanimento sta portando all’impoverimento delle famiglie italiane e europee: l’opinione pubblica è sensibilmente provata e impaurita dalle millantate sanzioni, multe e blocchi alla circolazione riservati alle auto diesel, sceglie auto più costose e magari più inquinanti, congelando le compravendite di auto di questo tipo – nuove e usate – e costringendo molte famiglie a ritrovarsi con automobili invendibili oltre che super svalutate.
Svolta green: futuro o fregatura?
Questo accanimento sul diesel è accompagnato da una strampalata campagna pro ibrido ed elettrico. Non negando che questi due siano i motori del futuro, va anche detto che forzare a una conversione al green in pochi anni non porta a nessun vantaggio. Nel 2016 in Italia la diffusione di questo tipo di auto è pari solo al 0,68% del parco auto. E molti Paesi hanno sancito che, a partire – in media – da una decina d’anni, il motore tradizionale (o in alcuni casi solo il diesel) sarà messo al bando. La polemica contro la conversione forzata all’ibrido e elettrico si articola su tre punti. Punto primo: sul territorio non esistono ancora le strutture necessarie a un parco auto di questo tipo, in primis le famose – quanto introvabili – colonnine di ricarica. In molti sostengono che sia opportuno prima dare una sistemata alla drammatica condizione delle infrastrutture e poi pensare alle colonnine. Secondo punto: le auto ibride ed elettriche costano decine di migliaia di euro in più rispetto alle “sorelle” termiche, spese non sostenibili per i più. Terzo ed ultimo punto: le auto sarebbero green, è vero, ma l’energia elettrica da dove deriverebbe? Numerosi studi hanno dimostrato che per fornire così tanta elettricità sarà necessario adoperare centrali a combustibili fossili (da qui il paradosso) o addirittura a energia nucleare. Si stima che se questa svolta si concretizzasse non a ritmi graduali sarebbe necessaria la riapertura di molte centrali a carbone, anche in suolo nazionale, pena enormi scompensi di fornitura. Questa è la contraddizione dell’elettrico, il passo più lungo della gamba della politica.
L’automobile, oggi
Ricapitolando, tra osteggiamenti al diesel e spinte fideistiche per l’adesione all’elettrico, quello dell’automobile è oggi un mondo contraddittorio. Forse il principale effetto negativo dei recenti scandali è stato quello di far crollare la credibilità dei costruttori e degli esperti del settore e di far assumere dunque alla politica una posizione ingerente e determinata a restituire all’opinione pubblica la verità sul mondo della mobilità con decisioni senza presa visione dell’argomento.
In questo contesto si inserisce la vicenda delle ecotasse proposte dal governo italiano o le scelte politiche francesi che hanno concorso alla protesta dei gilets gialli, o le polemiche contro i blocchi alla circolazione nelle città. Alle istituzioni è richiesto di fare un autonomo esame di coscienza e di lasciare spazio a chi è realmente coinvolto nella materia.
Come vedete bastano poche righe per capire come le verità vengano nascoste e i fatti rigirati a interesse di pochi. Conoscenza ancor prima che competenza: questa la lezione più importante che possiamo trarre da tutto ciò.
di Federico Romani