Intervista al regista Paolo Zucca
Il cinema sardo conferma di attraversare un ottimo momento, sia per qualità cinematografica, sia per gli eccellenti riscontri da parte del pubblico: “L’uomo che comprò la luna” di Paolo Zucca, film presentato alla festa del cinema di Roma nel 2018 e uscito nelle sale quest’anno, ne é un brillante esempio.
Abbiamo voluto intervistare il regista Paolo Zucca, che vogliamo qui ringraziare per la grande disponibilità con cui ci ha rivelato aspetti e curiosità sulla realizzazione del film.
Come le è venuta l’idea di un film così originale? Da quando sono nato, passo tutte le mie estati a S’Archittu. Dietro il famoso arco naturale, c’é una landa di rocce calcaree con dei grandi crateri che somiglia molto al suolo lunare. Non al suolo lunare grigio e polveroso che abbiamo visto nelle immagini della NASA (vere o false che siano) ma al suolo della luna vista dalla terra, chiara e luminosa. Noi lo chiamiamo lo “Scoglio del Genovese” e se ci si va a fare un giro di notte, con il cielo stellato, ci si sente davvero sulla luna (infatti ho girato lì tutte le sequenze lunari del film). Un giorno lessi un trafiletto di giornale, parlava di un americano, di nome Denis Hope, che vendeva dei pezzi di luna su Internet e ho poi scoperto che questo signore, auto-proclamatosi Proprietario della luna, é diventato milionario. È lì che è scattata la scintilla, quando ho pensato: “Io sulla luna ci abito, si trova a S’Archittu e appartiene agli abitanti del luogo: come si permette questo signore di venderla senza chiederci il permesso?“ In quel periodo stavo già pensando a una commedia che avesse come tema l’identità dei sardi, così questa idea della luna come oggetto di una contesa internazionale (e interculturale) mi è sembrata una metafora perfetta su cui costruire il racconto.
Come è stato lavorare con un attore così versatile come Benito Urgu, capace di passare in modo naturale dal registro comico al malinconico? Benito è un grande talento naturale. Il suo sguardo e il suo volto trasmettono un’umanità profonda, universale, capace di far ridere e di commuovere persone di ogni età, nazionalità ed estrazione sociale, a volte anche in modo inspiegabile. Il lavoro più impegnativo è stato per me quello di togliere a Benito la maschera di Benito. Maschera che indossa da più di sessant’anni e che lo porta ad ‘appoggiarsi’, spesso in modo inconsapevole, ad atteggiamenti, espressioni e tic ben collaudati che gli garantiscono un risultato immediato dal punto di vista comunicativo ma che lo allontanavano in modo molto pericoloso dal personaggio, che è Badòre e non Benito Urgu. Ma Benito è una persona molto intelligente e ha avuto la capacità e il coraggio di fidarsi di me e di farsi portare in territori dell’anima che lui conosce molto bene, ma che non aveva ancora esplorato come attore.
Come si sono trovati gli attori non sardi in un contesto così caratteristico in senso regionale? Benissimo. Ho avuto la fortuna di imbattermi in veri professionisti con i quali si è instaurato anche un rapporto di grande simpatia. Stefano Fresi poi è per metà sardo, perché suo padre è di Luogosanto. Quando gli ho detto che nel film c’era anche Benito Urgu ha subito chiamato i cugini sardi per dargli questa incredibile notizia.
Quale è stata la scena più complicata da girare? Perché? La scene degli eroi sardi sulla Luna è stata molto complicata dal punto di vista logistico. Eravamo sugli scogli, molto lontani dalla strada e dalla corrente elettrica, e bisognava portare sul luogo e gestire tutti i personaggi vestiti, pettinati e truccati ad arte, tra i quali alcuni anziani, uno a cavallo, uno con una pesantissima armatura di ferro e il protagonista che interpretava il doppio ruolo di se stesso e di suo nonno. Abbiamo girato tutto in un giorno, con dei ritmi forsennati e una tensione sul set al limite del sopportabile. Ma sono contento del risultato, alla fine. E posso vantarmi di aver inventato una tecnica originale per rendere l’effetto della luce lunare. Infatti abbiamo girato in pieno giorno, con la luce solare naturale, e abbiamo poi sostituito in post-produzione tutti i cieli azzurri con dei cieli stellati. Credo di essere il primo ad averlo fatto e di avere il diritto di battezzare questo effetto originale “effetto Zucca”.
C’è qualche significato dietro la scena iniziale del film? È sbagliato interpretarla come un riferimento alla testardaggine sarda? No. E’ giusto. Il film affronta in modo deliberato (e quasi enciclopedico) tutti gli stereotipi attraverso i quali i Sardi vengono rappresentati e, soprattutto, attraverso i quali i Sardi si sono abituati ad auto-rappresentarsi. La testardaggine del Sardo è il luogo comune numero uno, per cui ho voluto aprire il film con una rappresentazione quasi metafisica di questo concetto: “Il Sardo è più testardo di un mulo”.
C’è qualcosa in comune tra i suoi film e quelli di altri registi sardi ( come per esempio Pau, Angius, Cabiddu,…)? Credo che ci sia la volontà di raccontare dal di dentro l’universo vasto, vario e straordinariamente profondo della Sardegna. I nostri film sono molto diversi per tono, stile contenuti, luoghi e intenzioni ma ho l’impressione che la Sardegna non sia mai solo un’ambientazione, uno sfondo davanti al quale si muovono i personaggi. E’ qualcosa di più: è un elemento connaturato a quelle storie e a quei personaggi, dal quale è impossibile, a mio parere, separarli. Credo che una dose di ‘sardità’ sia connaturata allo sguardo dei principali cineasti isolani, anche di quelli che non ne sono del tutto consapevoli.
Nel ringraziare Paolo Zucca, rimane il consiglio, per chi non lo avesse ancora fatto, di vedere questo film, un piccolo gioiello di originalità che conferma, qualora ce ne fosse ancora bisogno, le straordinarie potenzialità della nostra regione anche in ambito cinematografico.
di Davide Rawiri Atzeni